La Cassazione sul reato di alterazione d’arma

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La Cassazione sul reato di alterazione d’arma

Con sentenza n. 19076 del 5 maggio 2023 (udienza del 22 marzo), la sezione I penale della Cassazione si è pronunciata sul reato di alterazione di armi. In particolare, il fatto ha riguardato un cittadino portato a processo perché aveva “alterato un fucile da caccia apponendovi una staffa atta a munire l’arma di un led a raggi infrarossi, finalizzato da aumentarne la potenzialità per la caccia vietata notturna”.

Il giudice di primo grado ha ritenuto insussistente il fatto, ma il procuratore della Repubblica ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo invece che l’arma fosse effettivamente alterata nel senso contemplato dall’articolo 3 della legge 110/75. La Cassazione ha tuttavia respinto come infondato il ricorso, osservando che “La sentenza del Tribunale di primo grado presenta una duplice ratio decidendi in quanto, da un lato, ha ritenuto insussistente il reato contestato poiché l’alterazione dell’arma, pur funzionale ad agevolarne l’utilizzazione, non era tale da averne modificato le caratteristiche meccaniche e le dimensioni. Inoltre, la condotta è stata giudicata carente del requisito dell’offensività in concreto in quanto la modifica è stata ritenuta tale da non determinare una maggiore offensività dell’arma in concreto per l’offesa alle persone, essendo stato il reato contestato in relazione a modifiche volte ad aumentare l’efficienza del fucile «per finalità venatorie» con conseguente venir meno di ogni pericolo per la pubblica incolumità. Il ricorso del Pubblico ministero, coinvolge, con il primo motivo, entrambe le ragioni della decisione sostenendo che la modifica apportata all’arma rientri nell’ampia nozione di «alterazione delle caratteristiche meccaniche» di cui all’art. 3 legge n. 110 del 1975 e che il ragionamento svolto dal giudice di merito sia viziato per avere operato la trasformazione di un elemento meramente descrittivo della fattispecie concreta (modifica apportata ad un fucile da caccia) in elemento costitutivo del reato. Il motivo è infondato, in primo luogo, dovendosi ritenere che la motivazione della sentenza impugnata sia esente dal lamentato vizio di violazione di legge. L’art. 3 legge 18 aprile 1975, n. 110 sanziona la condotta di «chiunque, alterando in qualsiasi modo le caratteristiche meccaniche o le dimensioni di un’arma, ne aumenti la potenzialità di offesa, ovvero ne renda più agevole il porto, l’uso o l’occultamento». Mentre l’alterazione dell’arma, quindi, può avvenire con modalità non tipizzate, l’oggetto della modifica, per perfezionare la fattispecie penale, deve riguardare le caratteristiche meccaniche o le dimensioni dell’arma, rimanendo penalmente irrilevanti quelle modifiche dell’arma che non riguardano tali specifici aspetti. È stato affermato e viene qui condiviso che «l’alterazione delle caratteristiche meccaniche dell’arma (ossia di quelle che attengono al suo concreto funzionamento) possa avvenire, con la conseguente integrazione della fattispecie incriminatrice, nel pieno rispetto del principio di offensività (“in qualsiasi modo” stabilendo la disposizione), anche mediante modificazioni reversibili, ma pur sempre effettive, se e in quanto esse abbiano concretamente conseguito uno degli obbiettivi che l’ordinamento ha inteso espressamente scongiurare (l’aumento di potenzialità di offesa o l’accentuata agevolezza del porto, dell’uso o dell’occultamento)» (Sez. 1, n. 8351 del 27/10/2021, dep. 2022, Longo, in motivazione). Nel caso di specie, l’apposizione della staffa, è stata correttamente ritenuta non integrante la modificazione o l’alterazione penalmente rilevanti in ragione del fatto che essa si è sostanziata nell’aggiunta di un elemento esterno non idoneo ad alterare l’aspetto funzionale effettivo dell’arma, diversamente da quanto accade nel caso dell’apposizione di un silenziatore. Peraltro, anche quest’ultima, è stata ritenuta condotta da valutare nel contesto in cui tale condotta è stata posta in essere, tenuto conto del fatto che, proprio per il generale principio di offensività, occorre esaminare la condotta in relazione alla sua concreta possibilità di recare pregiudizio al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. È stato precisato, infatti, che «il concetto di maggiorata offensività non deve identificarsi soltanto con un aumento della potenza e della precisione dell’arma, bensì deve ritenersi riferibile anche a quelle situazioni di potenziale impiego nelle quali la disponibilità di un’arma silenziata costituisce un obiettivo incentivo all’adozione di comportamenti antigiuridici» (Sez. 1, n. 23348 del 26/09/2017, dep. 2018, Chiappa, non mass.; Sez. 1, n. 5381 del 18/04/1997, Parolari, Rv. 207819 – 01; in tal senso anche Sez. 7, ord., n. 33331 del 05/06/2019, Sotgia, non mass.; Sez. 1, n. 3127 del 12/01/2011, Paladini, non mass.; Sez. 1, n. 8639 del 27/11/2008, dep, 2009, Tonacci, non mass., tutte richiamate da Sez. 1, n. 8351 del 2022 cit.). È pertanto esente da vizi anche la seconda parte della motivazione della sentenza che, nel ritenere la mancanza del requisito dell’offensività in concreto della condotta, ha operato in termini ineccepibili avendo considerato che, in effetti, la staffa era stata apposta su un fucile da caccia rinvenuto nella disponibilità dell’imputato in un contesto del tutto lecito quale quello dell’esercizio dell’attività venatoria, non desumendosi da alcun elemento la possibilità di formulare, alla luce delle modalità della condotta, un giudizio probabilistico di uso dell’arma per finalità diverse”.

 

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Fonte: armietiro
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